Proviamo a definire, con l’ausilio dell’allegoria, la poesia europea del novecento: una strada pulita e ordinata in cui, dopo aver superato il cartellone stradale con la scritta “The 20 century”, diventa difficilmente praticabile a causa dei fossati e delle crepe ma dalla quale crescono bellissimi fiori.
Quest’allegoria ci dà all’inizio un’immagine lineare della poesia europea ottocentesca mentre successivamente, superato il cartello che annuncia l’ingresso nel nuovo secolo, avviene una radicale trasformazione del linguaggio e dello stile della scrittura poetica. Nell’Europa della seconda rivoluzione industriale nacquero le avanguardie artistiche e letterarie.
Nella categoria “arte d’avanguardia”, i diversi linguaggi artistici (letteratura, pittura, scultura) diventarono il terreno dello scontro sociale e del conflitto di classe contro il conformismo borghese attraverso il sovvertimento estetico della forma regolare e lineare (Sanguineti, 1965). In Italia nacque il Futurismo (1909), in Francia il Dadaismo (1916), il Surrealismo (1924), e il Lettrismo (1946).
Il Regno Unito si avviò alla letteratura di avanguardia con il gruppo New Apocalyptics (Hendry e Treece, 1939) il quale proponevano uno stile poetico polemico e osceno e il gruppo The Movement (Enright 1955, Morrison 1980) con uno stile di scrittura razionale e ironico. Negli anni ’50 il linguaggio beat dei poeti americani di San Francisco arrivò a Liverpool con Roger McGough, Brian Patten, e Adrian Henri con l’antologia “The Mersey Sound” (McGough, 1967).
Nella metà degli anni ’70 nel Regno Unito emerse il fenomeno della subcultura punk che tra le molteplici rappresentazioni sociali si manifestò anche nella poesia e nella musica.
Il punk poetry si presentò come controcultura con un linguaggio nichilista e politicamente anarchico, libertario e individualista. Il punk poetry, nella Londra del business e dei grandi affari, polemizzò contro ogni forma di autorità, di organizzazione sociale, e di mercantilismo del vivere quotidiano, proponendo uno stile di vita, di usi e costumi, oltre i limiti del divieto (Versluys,1980).
La subcultura punk trainò l’insoddisfazione della poetica beat ad un punto di rottura estremo e inevitabile contro la società borghese. Nel punk la poesia diventò cantata, urlata, e musicata con ritmi duri e dissonanti. Con i poeti beat negli Stati Uniti e i poeti punk nel Regno Unito, avvenne un ritorno della poesia cantata in chiave moderna.
John Cooper Clarke, poeta, cantante e musicista inglese del Lancashire, nato il 25 Gennaio 1949, fu tra i pionieri della sottocultura punk. La poetica di Clarke si differenzia dagli altri poeti della sua generazione perché non è un poeta di denuncia ma è un esistenzialista il quale mette al centro della sua poetica il dasein heideggeriano e la questione della temporalità dell’uomo.Clarke identifica l’uomo moderno in una dimensione spazio-temporale fondata sulla paralisi. L’uomo moderno è in uno stato vegetativo; la percezione della nullificazione della vita ha un andamento progressivo. Nella paralisi dell’uomo moderno i percorsi di realizzazione e la costruzione del sé si dirigono verso un bivio morto e la percezione della luce come consapevolezza dello spazio e la gestione efficiente del proprio tempo si mescolano nella totale dissoluzione.
Clarke sviluppa questa visione nei versi della poesia “36 hours” (poesia Cantata tratta dall’album, Snap, Crackle & Bop del 1980 edito da CBS/Epic):
Another bloke is leaving in a wheelchair
No joke, here comes the punchline
Steel shoes on the stone cold floor
I hear the screws screaming in the corridor
The bad news and the slammin’ of the door
The “what did I do’s” and the “what am I here for’s”
Shades of doubt fall deeper than the slag mine
Un altro ragazzo sta partendo su una sedia a rotelle
Non è uno scherzo, ecco che arriva la battuta finale
Luci spente … tempo morto
Scarpe d’acciaio sul pavimento freddo di pietra
Sento le viti che urlano nel corridoio
Le cattive notizie e lo sbattere della porta
Il “cosa ho fatto” e il “per cosa sono qui”
Sfumature di dubbio cadono più in profondità della miniera di scorie
Luci spente … tempo morto
Clarke individua nel peso ingombrante del corpo il passaggio (“un altro ragazzo sta partendo su una sedia a rotelle”) verso la nullificazione della vita (“le luci spente… tempo morto”), ma il trascinamento verso il baratro non è indolore. Nel peso ingombrante del corpo “sento che le viti urlano nel corridoio”. La paralisi comporta il dolore del corpo e dell’anima e l’umanità si sente condannata kafkaniamente (come nel “Processo”) a questa condizione di stasi senza conoscere la motivazione.
36 hours on the battery farm
A blindfold and a broken arm
I got the cold shoulder sleepin’ in the barn
Whose barn… what barn… their barn
The old soldier and his old-world charm
Lift that weight, drag that woodbine
Lights out mate sackarooni time
Una benda e un braccio rotto
Ho la spalla fredda che dorme nel fienile
Il cui fienile … quale fienile … il loro fienile
Il vecchio soldato e il suo fascino antico
Solleva quel peso, trascina quella legna
Nel luogo dell’annientamento si produce l’omologazione in serie imposta dalla società globale che non permette pause di riflessione. La produzione seriale deve continuare ad ogni costo nell’impedimento fisico, nel dolore, senza mai dimenticare il disagio del peso dell’Esser-ci.
Ma c’è una minima speranza di liberazione? Probabilmente al 23° piano si può prendere il volo e chiudere definitivamente con la vita. Probabilmente, ma “non ci prova” come dice Clarke in alcuni versi della poesia “23rd” (tratta dallo stesso album del 1980):
Here he comes now – 23rd
Compassion, it isn’t necessary
His sickness is an act
He’ll make you an accessory
Eccolo che arriva ora al 23esimo
La sua malattia è un atto
La paralisi continua mortificante a manifestarsi e il componimento poetico mostra un luogo dove oltre non si può più andare e nel quale è d’obbligo una scelta tra:
ma infine “non ci prova”.
Anche i personaggi di James Joice in Gente di Dublino pubblicato nel 1914 vivono la paralisi dell’esistenza. Prendiamo come esempio il racconto Eveline:“L’angoscia le aveva risvegliato quasi un senso di nausea, e continuava a muovere le labbra in una silenziosa e fervida preghiera. Risuonò una campana dritta nel suo cuore. Sentì che egli le afferrava la mano. ‘Vieni!’. No! no! no! Era impossibile. Le sue mani si avvinghiavano al ferro con frenesia. E in mezzo a quei mari ella lanciò un grido di angoscia! ‘Eveline! Evy!’. Egli superò d’un balzo la barriera e la chiamò perché lo seguisse. Qualcuno gli gridò di portarsi avanti ma egli continuava a chiamarla. Ella volse verso di lui la faccia bianca, passiva, come un povero animale impotente. I suoi occhi non gli diedero alcun segno di amore o di addio o di riconoscimento”.
Eveline afferra le sbarre di ferro e “non ci prova” a valicare la soglia di una nuova vita. Quelle sbarre di ferro sono la sua sicurezza, una sicurezza di una tranquilla prigionia, esclusa dal banchetto della vita come un altro personaggio dei “Gente di Dublino”, il signor James Duffy in “Un Increscioso Incidente”:“Sapeva che le creature distese laggiù accanto alla muraglia lo stavano osservando, col desiderio che se ne andasse. Nessuno lo voleva; era escluso dal banchetto della vita. Volse gli occhi verso il fiume che grigio e luccicante, si snodava lento verso Dublino. Oltre il fiume vide serpeggiare nella valle un treno merci che stava per uscire dalla stazione di Kingsbridge, un verme dalla testa fiammeggiante che si faceva strada nel buio, tenace e laborioso. Scomparve adagio alla sua vista, ma gli sbuffi ansimanti della locomotiva continuarono a risuonargli nelle orecchie, scandendo sillabe del nome di lei. Ritornò sui suoi passi, col ritmo della locomotiva che gli martellava nel cervello. Cominciava a dubitare della realtà di quanto gli evocava la memoria. Si arrestò sotto un albero e lasciò che quel ritmo smorisse in lontananza. Non la sentiva più vicina nel buio adesso, né la sua voce gli sfiorava l’orecchio. Stette alcuni minuti in ascolto: nulla. Nella notte regnava un silenzio assoluto. Ascoltò ancora: silenzio perfetto. Sentì che era solo”.
Immaginando una conversazione tra Clarke e i due personaggi di “Gente di Dublino”, Eveline e Mister Duffy, il poeta inglese potrebbe rispondere con “Nothing” (dall’album di debutto “Où est la maison de fromage?” del 1978 edito da CBS/Epic):
Nil plus nil is nothing
Nothing to get worked up about
Don’t say nothing to no one
It’s nothing to do with them
Come all the way from nowhere
And now I’m nowhere else
Where nothing is out of place
It’s like talking to the wall
I give you what I get
I give you bugger all
Nulla di ciò che ho ottenuto
Non dire niente a nessuno
Non ha niente a che fare con loro
E ora non sono altrove
Ti do quello che ottengo
In Clarke la nullificazione della paralisi non si nasconde, è un qualcosa di tangibile. Nella poesia di Clarke, la paralisi è una condizione interiore che si rispecchia nell’esterno, come un’imposizione derivante dall’inconscio e una sorta di rituale inevitabile che comporta la rinuncia e la rassegnazione della vita (“non ci prova”). Invece Eveline e Mister Duffy in Gente di Dublino sembrano subire la paralisi come condizione esistenziale proveniente dall’esterno. La paralisi joyciana è nell’incapacità di operare delle scelte ma è presente il desiderio di voler scegliere.
La società occidentale è fondata sull’individualismo e sulla scelta come elemento basilare della vita e solo attraverso le scelte e le conseguenze delle scelte che noi sviluppiamo la nostra personalità. (Mead, 1928). L’obbligo della scelta nei diversi ambiti della vita contribuisce ad alimentare sintomi di angoscia e disperazione. Secondo il filosofo danese Søren Kierkegaard, l’angoscia è determinata dal rapporto tra l’individuo e la realtà esterna, mentre la disperazione nasce dal rapporto che l’individuo ha con sé stesso (1843). In Clarke l’angoscia è un principio di auto-affermazione e di cosciente ineluttabilità della propria paralisi.
No falling chimes, no call to arms,
No siren whines, no false alarms,
At the side of the farms
Arm in arm, down hemlock row
Where the flowers of evil… never grow
Nessun campanello, nessuna chiamata alle armi,
Nessun suono di sirena, nessun falso allarme,
Braccio a braccio, fila di orlo in giù
Dove i fiori del male … non crescono mai
(Versi tratti dalla poesia cantata “Belladonna” dall’album Snap, Crackle & Bop 1980 CBS/Epic label)
In conclusione, nella poesia di Clarke i versi sono degli ingranaggi che girano senza opporsi al movimento meccanico della vita consumistica e la paralisi si evidenzia proprio nel moto senza controllo e senza ragione, inabile a cambiare una direzione. La poesia punk è un punto di partenza da cui si potrebbero sviluppare nuovi linguaggi poetici del XXI secolo per far riemergere dal riflusso un’arte letteraria che incontra sempre maggiori difficoltà nel panorama culturale.
Enright, D. J. (1955), Poets of the 1950s: an anthology of new English verse, Tokyo, Kenkyusha
Hendry F.J. and Treece H. (1939), The New Apocalypse, London, Routledge
Joice J. (1914), Gente di Dublino, Fabbri Editore, collana “La Grande Biblioteca”, 1994
Mead M. (1928) Coming of Age in Samoa: A Psychological Study of Primitive Youth for Western Civilization, William Morrow and Company
McGough R. (1967) The Mersey Sound (with Adrian Henri and Brian Patten), Penguin
Morrison B. (1980), The Movement, Oxford University Press
Pivano F. (2005), Beat & Pieces. A complete story of the beat generation, with photographs by Allen Ginsberg, Milano, Photology
Versluys H. (1980), London’s Burning: An exploration in punk subculture, Universiteit Antwerpen, Belgium.