Il viaggio di Giorgia Meloni a Kiev, il discorso di Vladimir Putin a Mosca (e quello di Joe Biden a Varsavia), la pseudo proposta di pace di Xi Jinping. Oggi partiamo con i leader che si scaldano intorno alla guerra in Ucraina, passiamo dall’Iran e dal Brasile (dove è tornato il carnevale). E finiamo con l’edizione russa (striminzita) delle memorie di Harry e le folgorazioni dei due registi di «Everything Everywhere All at Once» che citano Kubrick: «La cosa più terrificante dell’universo non è che è ostile, ma che è indifferente». Si può dire lo stesso di noi umani? Buona lettura. La newsletter America-Cina ed è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corrienon è disimpegno, re della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it.
Vladimir Putin, nel discorso sullo stato della nazione all’Assemblea federale russa , durato un’ora e 45 minuti, davanti a entrambe le camere del Parlamento, attacca l’Occidente e non parla di guerra ma, ancora, di «operazione speciale». E fa un annuncio: la Federazione russa sospende la sua partecipazione a New Start Treaty, il nuovo trattato sulla riduzione delle armi nucleari ancora in vigore con gli Usa. Giustifica questa posizione dicendo che non può permettere agli ispettori americani di visitare i siti nucleari russi mentre «Washington è intenta ad infliggere una sconfitta strategica a Mosca».
Un annuncio che suona come una minaccia seguita anche dall’invitato al ministero della Difesa a tenersi pronto per futuri test sulle armi nucleari. «Non le useremo mai per primi, ma se lo faranno gli Stati Uniti dobbiamo essere pronti. Nessuno deve farsi illusioni: la parità strategica non deve essere infranta» (qui l’articolo completo).
Nel lanciare un anno fa la sua sciagurata «Operazione Speciale» contro l’Ucraina, Vladimir Putin ha sostanzialmente commesso tre errori di valutazione: si è illuso sulla forza militare della Russia, ha sottovalutato la determinazione e la capacità di resistenza del popolo ucraino, non ha previsto l’unità e la tenuta dell’Occidente nel sostenere Kiev (...).
Putin presidente nel 2000 (dietro di lui Boris Eltsin)
Dodici mesi dopo, nessuno degli obiettivi che lo Zar si era prefissato è stato raggiunto (...). Il suo potere appare ancora saldo. Putin ha rafforzato la verticale del potere, completato la trasformazione totalitaria e neostalinista del sistema russo, intensificato la repressione (...). Eppure, il suo destino non è scritto nel marmo. L’incerto finale della partita ucraina lascia aperti molti scenari ... (il resto dell’analisi la trovate nello speciale «Guerra» oggi in edicola gratuitamente con il «Corriere della Sera», e da domani sul sito ).
Alle due della notte polacca il treno blu con a bordo Giorgia Meloni, lo staff di Palazzo Chigi, il sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari e una ventina di giornalisti italiani si è messo in moto sulle rotaie di Przemysl, in direzione Kiev. Siamo a dieci chilometri dal confine con l’Ucraina ed è la stessa stazione dove l’8 marzo dello scorso anno, due settimane dopo l’inizio dell’aggressione russa, Matteo Salvini fu contestato dal sindaco per aver indossato in passato una t-shirt con il volto di Putin: «Io non la ricevo» (...).
Giorgia Meloni al suo arrivo alla stazione di Kiev
In tarda mattinata, la visita a due cittadine martoriate, Bucha e Irpin , simbolo della ferocia dell’esercito russo. Poi, la foto a lungo attesa dell’abbraccio tra la premier italiana e il presidente. In una Kiev blindata come non mai, lunedì era arrivato Joe Biden. La visita a sorpresa del presidente americano ha fatto saltare tutti gli orari , la delegazione italiana ha accumulato ore di ritardo sulla tabella di marcia. Il treno è lo stesso che nel giugno scorso portò nel cuore ferito dell’Ucraina i tre presidenti Draghi, Macron e Scholz , protetti da centinaia di agenti dell’intelligence. Si va avanti a singhiozzo, fino alla frontiera (qui l’articolo completo).
«Abbiamo appena varato il decreto e dall’Ucraina ci sono arrivate altre richieste. Toccherà farne un altro». Un paio di settimane fa il ministro della Difesa confidava a un collega di governo che il dossier per una nuova fornitura di armi a Zelensky era già aperto. Nei format di comunicazione attraverso i quali gli stati maggiori di Roma e Kiev si confrontano, era emersa con chiarezza la necessità delle forze armate ucraine di ottenere nuove dotazioni per resistere all’offensiva russa. E dal livello tecnico la questione è passata al livello politico. Cioè a Crosetto. Il settimo decreto è in via di elaborazione . D’altronde, ai tempi del gabinetto Draghi, Guerini ne aveva firmati cinque in otto mesi: in media uno ogni quaranta giorni. Oggi, per quanto le scorte negli arsenali siano ridotte e la «riserva» per la difesa del suolo nazionale non possa essere intaccata, fonti del ministero fanno sapere che «c’è ancora margine per assecondare la richiesta di armi »... (qui l’articolo completo).
«Ragionare con calma», «smettere di alimentare le fiamme» , «evitare che il conflitto ucraino sfugga al controllo». La diplomazia cinese continua a distillare appelli sulla crisi ucraina. In attesa delle dichiarazioni pubbliche (e riservate) di Wang Yi oggi a Mosca , questa mattina a Pechino ha parlato Qin Gang , il ministro degli Esteri che nella gerarchia mandarina viene dopo Wang , membro del Politburo e responsabile della politica internazionale del Partito comunista.
Qin Gang ha assicurato che la Cina continuerà a «spingere per il dialogo» e mette a disposizione la propria «saggezza per trovare una soluzione politica». «Soluzione politica», nel linguaggio di Pechino ha assunto un rilievo nuovo da quando Wang Yi la settimana scorsa ha annunciato l’imminente presentazione di una proposta di Xi Jinping per fermare il conflitto . Il presidente cinese potrebbe lanciarla in un discorso o in documento durante questa settimana fatidica che segna il primo anniversario dell’invasione russa (che Xi non ha mai chiamato invasione). Da molti mesi, soprattutto gli europei sperano in un intervento di Xi su Putin. Finora, la Cina non ha mostrato un chiaro interesse a fermare subito la guerra (sempre ammettendo che Putin si lascerebbe convincere): l’interscambio commerciale cinese con l’Occidente prosegue florido, ha segnato un record con gli Stati Uniti nel 2022 , il suo surplus cresce; il petrolio russo arriva alle industrie cinesi a prezzo di favore, in gran quantità. Molti politologi sostengono che la mediazione sarebbe comunque impossibile, perché Pechino non è neutrale, come dimostra la proclamazione di «collaborazione senza limiti» del 4 febbraio 2022 tra i cari amici Xi e Putin. Ci si dimentica però che il trattato per il cessate il fuoco nella guerra di Corea, nel 1953, portava al centro la firma del generale Peng Teh Huai, comandante dell’armata di Volontari del popolo cinese che aveva attaccato a ondate per conquistare Seul (ai suoi lati firmarono il socio nordcoreano Kim Il Sung e il generale nemico Mark Clark come comandante del contingente delle Nazioni Unite.) Essere neutrali, quindi, non è sempre necessario per fare la pace o partecipare a una mediazione (basta controbilanciare dall’altra parte). È chiaro che un negoziato per portare al tavolo insieme Russia e Ucraina dovrebbe coinvolgere gli Stati Uniti. Certo, va considerato che Xi finora non ha mai parlato con il presidente Zelensky , mentre ha incontrato o sentito l’amico Putin già quattro volte , dopo il 4 febbraio 2022, giorno della «collaborazione senza limiti». Il problema è se «le idee per la soluzione politica» di cui parla Wang Yi possano essere una base di dialogo. Qualcosa si è capito, sia dalle parole pubbliche dell’inviato cinese durante il suo tour europeo, sia da indiscrezioni di (anonimi) diplomatici della Ue e commenti di politici. Il piano dovrebbe essere in 12 o 14 punti. 1) «Bisogna attenersi ai principi dell’integrità territoriale e della sovranità», ha detto Wang. 2) «Bisogna garantire le istanze di sicurezza di tutte le parti», ha subito aggiunto aprendo un grosso punto interrogativo. 3) Cessate il fuoco e stop alle forniture di armi (è noto che l’Occidente sostiene la resistenza ucraina; mentre Pechino nega di voler sostenere con «armi letali» i russi). 4) «Garantire che non ci siano attacchi nucleari o su impianti nucleari civili». 5) Impegno a non usare armi biochimiche. Ottenuta su queste basi la sospensione delle ostilità, potrebbe cominciare il dialogo tra Mosca e Kiev? Quale integrità territoriale per l’Ucraina sarebbe tracciata sulla mappa cinese? Pechino non ha riconosciuto l’annessione della Crimea da parte russa nel 2014, ma non l’ha condannata nei voti all’Onu. Stessa linea sugli ultimi referendum farsa del 2022 nel Donbass. Pechino sta bene attenta anche perché non vuole costituire un precedente «legale» per Taiwan, su cui vanta la sovranità (per ora teorica). I cinesi temono anche che la difesa dell’Ucraina da parte degli Stati Uniti sia un modello che sarebbe replicato a Taiwan, magari non solo con forniture di armi, ma con l’impiego delle forze americane. Però, non sembra che Putin sia disposto a una ritirata, dopo tutto questo sangue. E poi, Xi gli dà ragione quando parla di «sicurezza per tutti»: si riferisce all’allargamento a Est della Nato, alla non neutralità della democrazia ucraina. Osservazione dura della Germania: «Una pace giusta non può premiare l’aggressore, ci si deve levare in piedi per difendere il diritto internazionale e coloro che sono stati aggrediti» (lo ha detto la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock dopo aver appreso del piano cinese). Infine, sospendere le forniture di armi all’Ucraina durante un cessate il fuoco permetterebbe alla Russia di riorganizzare le proprie forze e rifornire l’arsenale di armamenti e munizioni. Ecco spiegato lo scetticismo di molti governi europei , pure ansiosi di veder finire il conflitto nel cuore del continente. Ma una proposta del genere, portata davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite che si sta aprendo a New York, troverebbe buona accoglienza da molti Paesi «del Sud del mondo». Sarebbe comunque un successo geopolitico per la Cina.
È il giorno degli «alleati» e della «democrazia». C’è attesa per il discorso che Joe Biden terrà oggi, martedì 21 febbraio, alle 17.30, nel Castello Reale di Varsavia . Dopo il blitz a Kiev di ieri, il presidente americano si rivolgerà al blocco occidentale che sta appoggiando la resistenza ucraina. In una «conference call» con i giornalisti accreditati, il Consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan , ha anticipato il tema essenziale.
Il discorso di Biden al Castello di Varsavia il 26 marzo 2022
«A Kiev, il presidente ha confermato l’impegno degli Stati Uniti ; oggi a Varsavia si concentrerà sull’unità tra gli alleati. Non ci sono crepe , siamo tutti determinati, siamo tutti con l’Ucraina». Sullivan ha anche aggiunto che Biden non risponderà direttamente a Vladimir Putin. Ma è chiaro che il leader Usa non potrà ignorare il tentativo russo di ribaltare sulla Nato, sull’Occidente la responsabilità della guerra . Il presidente Usa aveva già parlato a Varsavia , il 26 marzo 2022, a un mese dall’invasione. In quell’occasione Biden aveva promesso che gli Stati Uniti e i suoi alleati avrebbero dimostrato quanto fosse sbagliato il calcolo politico di Putin che puntava sulla «debolezza» e le «divisioni» dell’Occidente. Ora ripartirà da lì. Nell’ultimo anno «le democrazie si sono rivelate più forti delle autocrazie» . Putin ha fallito ed è destinato alla sconfitta. Possiamo aggiungere altre due osservazioni. Il ritorno a Varsavia di Biden è la prova di come siano cambiati gli equilibri geopolitici in Europa . Ora la sicurezza è la priorità numero uno nel Vecchio continente. Inevitabilmente il fianco est dell’Europa e della Nato ha assunto un’importanza vitale. Non a caso domani , 22 febbraio, Biden concluderà la sua visita incontrando i capi di stato e di governo del cosiddetto Bucarest 9 (B9) : Polonia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania. Secondo: Biden ha cercato in tutti i modi di evitare lo scontro con Putin. Ora, però, è coinvolto direttamente e ha assunto la funzione di «Commander in Chief» non solo degli Stati Uniti, ma dell’intero blocco europeo e occidentale.
Una giornata dove dominano le milizie . Il presidente bielorusso Lukashenko (foto sotto ) ha annunciato la creazione di un corpo di volontari. Secondo le autorità dovrebbe essere composta da almeno 100-150 mila uomini. Gli esperti hanno spesso sottolineato come l’esercito di Minsk – circa 48 mila soldati – non rappresenti il massimo dell’efficienza.
Proseguono i contrasti tra il capo della Wagner , Evgeny Prigozhin, e il ministro della Difesa Shoigu . Il primo ha accusato i generali di non fornirgli un numero sufficiente di munizioni: «Vogliono distruggerci», è il messaggio postato su Telegram. Chi osserva le dinamiche del Cremlino sostiene che in questa fase la «stella» dei mercenari brillerebbe di meno. Colpa dei mancati successi al fronte. Magari domani torna ad illuminarsi grazie a giochi di potere. Interessante la decisione di Mosca di voler integrare le milizie del Donbass nelle forze regolare, gli appartenenti riceveranno benefit e pensione. Un tentativo di riorganizzare i ranghi, operazione però ritenuta complessa durante un conflitto.
A Bakhmut, nella città che è al cuore della battaglia in Ucraina un anno dopo l’aggressione voluta da Vladimir Putin, sono impressionanti le figure imbacuccate che si aggirano sulle strade innevate trainando slitte rudimentali cariche di legna da ardere e taniche d’acqua. Sono personaggi di questo girone dantesco squassato dalle esplosioni, nel freddo, con la consapevolezza che se dovessero cadere, feriti magari anche solo leggermente, nessuno li aiuterebbe, rimarrebbero lì a dissanguarsi, soli, mentre la loro città viene continuamente sfigurata.
Sono quasi tutti anziani. «Via, vattene via non vogliamo parlare. E non farci foto!», mi gridano un paio minacciando con un legno in mano. Sono esausti, non c’è più comprensione, nessun desiderio di comunicare, vorrebbero solo che finisse questo terrore al più presto. «Tanti negli ultimi giorni hanno deciso che accettano di essere evacuati. Il problema è che sta diventando troppo tardi. Non riescono più ad uscire dalle loro case o dalle cantine dove sono rintanati», spiega Dave Young, un volontario inglese direttore di «Help People», l’organizzazione umanitaria da lui creata proprio per l’evacuazione dei civili dalle città assediate dai russi. Dave ha una benda nera ad un occhio , i capelli arruffati, fa parte di quell’umanità «estrema», che sempre s’incontra al margine dei conflitti. «Ieri sera sapevo di avere 12 persone da salvare. Ma almeno quattro sono state investite dalle bombe, non credo di riuscire a portarne fuori neppure la metà», dice. Lo vedo poi seguire la nostra auto mentre entriamo nella cerchia urbana di Bakhmut. Alcuni giovani soldati trincerati nelle cantine di un palazzo ci urlano di andarcene che attiriamo l’attenzione dei droni russi. Nevica più forte, le nostre strade si dividono. Dave cerca di arrivare al centro , noi preferiamo posteggiare l’auto in una sorta di garage abbandonato e proseguire a piedi. Da una cantina esce il fumo di una stufa a legna, si odono voci: è un ottimo luogo dove cercare interviste restando un poco protetti.
La terra trema ancora al confine tra la Siria e la Turchia , lo abbiamo raccontato qui. Le chiamano scosse di assestamento perché sono meno potenti di quelle principali. Ma quelle di ieri hanno fatto tremare così violentemente la terra da causare altri tre morti, altri crolli e altri danni. Le scosse di assestamento — mentre eravamo in Turchia ne abbiamo sentite a decine e una particolarmente potente di magnitudo 5.3 — sono particolarmente pericolose perché arrivano in un contesto già provato e fragile. E fanno aumentare il rischio di nuovi crolli.
«Quando le senti non prendere mai le scale e nasconditi sotto un tavolo o un mobile solido» mi ha detto Sadiq, un ingegnere turco con cui sono diventata amica. Il tema è che queste scosse di assestamento dopo i grandi sisma, in genere, vanno avanti anche 10 giorni. Ma in alcuni casi possono durare anni, dicono gli esperti. Se dovesse essere così, per questa regione che già soffre 45 mila vittime e che già prima del terremoto era, per motivi politici e geopolitici, una delle più fragili del mondo sarebbe davvero una tragedia. Venendo via da Gaziantep l’altro ieri notte, come spesso mi succede, mi sono sentita in colpa. Io ho la fortuna di tornare a casa. Una casa con dei muri e un pavimento intatto. Mi viene il magone se penso a tutte le persone belle che ho incontrato in questi giorni e che, anche a distanza, hanno lavorato per aiutarmi e permettermi di scrivere o mi hanno sostenuto fosse solo con un messaggio, mentre intorno a loro letteralmente crollava il mondo. Per me è un arrivederci. A maggior ragione perché da qui, da questa terra, per me tutto è iniziato. E perché — me lo hanno insegnato le persone che stimo e a cui voglio bene — non si lascia mai indietro nessuno.
«La rivoluzione iraniana sta entrando in una nuova fase» assicura al Corriere Masih Alinejad, scrittrice e attivista iraniana in esilio negli Stati Uniti, arrivata oggi a Roma per audizioni nel nostro Parlamento.
La repressione del regime , fatta di torture di massa ed esecuzioni di piazza esemplari, è stata tanto sanguinosa quanto efficace: da gennaio si è ritirata l’ondata di manifestanti che si era riversata per oltre 12 settimane consecutive nelle strade di piccole e grandi città, quando la rabbia per l’uccisione di Mahsa Amini il 16 settembre si era trasformata in una delle sfide più serie per la teocrazia iraniana dalla rivoluzione islamica del 1979. «La gente eraesaus t a , ma ora si è ricaricata e si sta preparando per il grande ritorno» continua Alinejad, autrice di «The wind in my hair: my fight for freedom in modern Iran». Un segnale che la mobilitazione non si è spenta c’è stato giovedì scorso quando i manifestanti sono tornati numerosi a marciare per le strade in più città, per marcare i 40 giorni dall’esecuzione di due manifestanti. «Altri grandi cortei sono in programma questa settimana, ma non ci saranno più manifestazioni non stop come prima. Ora il dissenso si sta organizzando in altre forme — annuncia la scrittrice-attivista — come scioperi e disobbedienza civile, con campagne che invitano a non pagare le bollette o a ritirare i soldi dalle banche e convertirli in dollari. Sistemi alternativi per fare pressione sul governo, senza rischiare il carcere e la vita». Da un’inchiesta della Cnn emergono dettagli raccapriccianti del sistema messo in piedi dal regime per infliggere torture su larga scala : attraverso le testimonianze di alcuni sopravvissuti la tv americana ha individuato la posizione di una quarantina di siti di detenzione improvvisati e clandestini spuntati vicino ai luoghi delle protesta. «Hanno infierito sul mio corpo con forbici e accendini, mi hanno drogato, vomitavo sangue, credevo che sarei morto, nessuno sapeva dove mi trovassi» ha raccontato uno di loro. In questa nuova fase, la mobilitazione diventa anche politica, o almeno questo sperano gli 8 leader dei diversi gruppi dell’opposizione iraniana in esilio che sono riuniti a Washington la scorsa settimana con l’obiettivo di elaborare un unico programma per portare la democrazia nel loro Paese. Tra loro, oltre a Masih Alinejad, la Nobel Shirin Ebadi e l’ex capitano della squadra nazionale di calcio iraniana Ali Karimi. Per la prima volta da anni si è formato un fronte compatto delle opposizioni all’estero ma che questo basti a far emergere un leader all’interno del Paese non è affatto sicuro.
(Guido Olimpio ) Un terreno agricolo . È il premio offerto da una fondazione religiosa iraniana al ventenne sciita responsabile dell’attacco contro Salman Rushdie . Nell’aggressione, avvenuta il 12 agosto, l’autore dei «Versi satanici» ha perso un occhio .
«Vogliamo ringraziare il gesto coraggioso di un giovane americano che ha reso felici i musulmani», ha spiegato Mohammad Esmail Zarei, segretario dell’istituzione dedicata all’adempimento dei decreti religiosi dell’Imam Khomeini. La fatwa di morte contro lo scrittore è rimasta di fatto sempre «attiva» , mantenuta aperta da dichiarazioni ambigue da parte dei dirigenti di Teheran. C’è poco da aggiungere sulle azioni di un regime repressivo.
A Rio torna «l’apoteosi di follia» di O Carnaval , come titolano i giornali locali. Dopo lo stop nel 2021 e le restrizioni del 2022, decretati dalla pandemia di Covid-19, finalmente nelle strade della metropoli carioca sono esplosi musica, colori, balli. Fino all’alba di stamattina , nel sambodromo Marques de Sapucaí, ha sfilato l’élite delle scuole di samba, il Gruppo speciale. Migliaia di persone hanno affollato anche i «blocos de rua» – i concerti musicali in strada – sparsi in tutti i quartieri della città. Festa funestata, ieri, da una sparatoria sulla spiaggia di Maua in cui sono morte due persone, tra cui una bambina.
E’ un carnevale «più politico del solito , che esalta la libertà delle minoranze» assicura lo storico Luiz Antonio Simas, intervistato da Folha , che ricorda come l’ex presidente Jair Bolsonaro nel 2019 lo avesse osteggiato, associandolo su twitter ad una «festa della depravazione» . E i Bolsonaro sono pronti al grande ritorno , o almeno così annunciano via social. Jair, auto-esiliato negli Stati Uniti dallo scorso dicembre, promette di rimpatriare nel mese di marzo per guidare l’opposizione all’attuale governo di sinistra di Lula, che lo ha sconfitto di misura alle presidenziali dello scorso autunno. Ma prima dell’atteso rientro – anche perché difficilmente gli Usa rinnoveranno il suo visto turistico – Bolsonaro parteciperà assieme all’amico Donald Trump al «più grande evento della destra internazionale», come lo ha definito suo figlio Eduardo: dal 1 al 4 marzo, i due ex presidenti populisti e le rispettive «armate» di sostenitori saranno protagonisti della Conservative Political Action Conference. Da Rio, intanto, anche l’ex first lady Michelle Bolsonaro scende in campo , confermando il suo ingresso in politica «per aiutare a costruire un Brasile migliore». Guiderà il settore femminile del Partito liberale e farà comizi «in lungo e in largo per il Paese». Sulle prime pagine dei giornali brasiliani, Carnevale e politica sono però oscurati dall’ennesimo disastro provocato dai cambiamenti climatici e dall’edilizia fuori controllo. Le piogge torrenziali del fine settimana – «le peggiori di sempre» – hanno devastato la zona costiera dello Stato di San Paolo provocando almeno 40 morti, 37 dispersi e 2500 sfollati.
La sera del 13 novembre 2015 Nohemi Gonzalez, 23 anni, si era data appuntamento con alcuni amici americani e francesi ai tavolini del Carillon, il bar all’incrocio tra le vie Bichat e Alibert nell’est parigino. Figlia di immigrati messicani di Whittier, vicino a Los Angeles , la prima della famiglia ad andare all’università, Nohemi stava per finire i suoi sei mesi di scambio studentesco in Francia, e a febbraio sarebbe tornata in California per laurearsi in design. Alle 21 e 25, dopo le esplosioni allo Stade de France , la seconda cellula dei terroristi dello Stato islamico entra in azione e spara sui ragazzi seduti fuori dal bar. Poche ore dopo la madre, Beatrice, riceverà la notizia nel suo salone di parrucchiera a Whittier: Nohemi è stata uccisa, è l’unica vittima americana degli attentati dei ristoranti e del Bataclan .
Nelle settimane e nei mesi successivi il mondo ha cercato di capire la natura dello Stato islamico, come l’organizzazione reclutasse i suoi soldati, come ragazzi nati e cresciuti in Belgio o in Francia potessero scegliere di arruolarsi per massacrare innocenti. Tra gli ambiti di indagini c’erano ovviamente Internet e i social media , e l’uso abile che ne hanno fatto prima Al Qaeda e poi l’Isis . Una ong israeliana, Shurat HaDin, che lotta contro il terrorismo ricorrendo a cause legali, ha proposto ai genitori di Nohemi Gonzalez di fare causa a Google , casa madre di YouTube: lasciando che lo Stato islamico diffondesse i suoi video di propaganda sul sito, e che poi l’algoritmo di YouTube li portasse in evidenza, Google si sarebbe resa responsabile di complicità involontaria con i terroristi . La causa arriva oggi alla Corte Suprema americana , che dovrà pronunciarsi sulle «26 parole che sono il fondamento di Internet» : ovvero la Section 230 della Communications Decency Act, la legge del 1996, secondo la quale le piattaforme non sono penalmente responsabili per i contenuti realizzati da altri. YouTube, ma anche Twitter o Facebook , in base alla Section 230 , non sono considerati come editori, ma come semplici diffusori di materiale altrui . Gli avvocati della famiglia Gonzalez e della ong Shurat HaDin contestano proprio questa forma di irresponsabilità: «I video consultati su YouTube sono il modo principale con il quale l’Isis ha ottenuto sostegno e nuove reclute al di fuori delle aree di Siria e Iraq». Quindi, secondo i ricorrenti, la Section 230 deve essere abrogata o almeno modificata: i siti con miliardi di utenti non possono limitarsi a bandire solo i contenuti pornografici, come accade oggi, ma devono esercitare un controllo anche su altri contenuti pericolosi come i video di propaganda islamista (qui l’articolo completo).
(Guido Olimpio ) Tredici febbraio. Anthony Dwayne McRae , afro-americano di 43 anni, ha ucciso tre studenti alla Michigan State University a East Lansing e si è poi suicidato. Gli investigatori non hanno ancora trovato un movente chiaro. Non sorprende.
I punti della storia: I familiari lo hanno definito un solitario, senza contatti, con problemi mentali aggravatisi negli ultimi 2 anni dopo la morte della madre. Alle spalle qualche precedente giudiziario minore. Nessun legame apparente del killer con l’ateneo. La polizia ha trovato due pagine scritte da McRae dove affermava di sentirsi poco considerato, aveva una lista di bersagli (una chiesa, un fast food, un magazzino, una scuola), in apparenza luoghi da dove era stato allontanato. Aveva due pistole acquistate legalmente ma non registrate. Nello zaino 50 proiettili. Ha scelto di colpire l’istituto per emulazione? Le scuole e i college per alcuni sono diventate un simbolo da attaccare? O, tragicamente, l’obiettivo è «semplicemente» l’atto violento?
Daniel Kwan e Daniel Scheinert , noti semplicemente come «The Daniels», i registi di «Everything Everywhere All At Once» , hanno vinto sabato scorso il premio per miglior regia della Directors Guild of America: un segnale che potrebbero vincere anche agli Oscar il mese prossimo (è stato sempre così, con una sola eccezione, negli ultimi dieci anni). I Daniels hanno «sfilato» il premio a Steven Spielberg, il favorito, con «I Fabelmans» (sarebbe stato il suo quarto). «Everything Everywhere All at Once» realizzato con soli 14 milioni di dollari , ha ricevuto 11 nomination agli Oscar, e ha un seguito di giovani fan entusiasti in America.
Una scena di «Everything Everywhere All at Once»
Ad un recente intervento, al Lincoln Center di New York , i due registi hanno parlato a cuore aperto. La sala era piena, nonostante il film sia uscito nove mesi fa. Per molti nel pubblico non era la prima visione. «Anche se facessimo un altro film che viene nominato agli Oscar, non sarà mai più così, perché nessuno sapeva chi fossimo un anno fa — ha spiegato Kwan —. E tutte le nomination sono state assegnate a persone che le hanno ottenute per la prima volta». Il film affronta il tema del multiverso , un concetto che «ha iniziato ad affascinarmi mentre guardavo il documentario Sherman’s March — continua Kwan — in cui il regista cerca di esplorare la figura del generale Sherman ai tempi della Guerra civile , ma alla fine esplora anche il proprio rapporto con una serie di donne della propria vita, una delle quali è una linguista che parla di realismo modale (tutti i mondi possibili sono reali allo stesso modo in cui lo è quello reale ndr), e sono andato su Wikipedia per capire meglio — e non ho mai finito di vedere quel documentario. Ho il disturbo da deficit dell’attenzione e ogni volta che vedo un’immagine il mio cervello la rifrange istantaneamente in una marea di diverse possibilità. È travolgente e trovo conforto nell’organizzare il caos. Perciò l’idea del multiverso e dell’infinità è affascinante per me». I due registi hanno realizzato una serie di corti per mettere alla prova queste suggestioni («Interesting Ball», «Possibilia«), ma continuavano a pensare — racconta Scheinert — che saltare da un primo in un secondo universo era «sì, carino”» però non rendeva l’idea. «Infiniti universi... non ci sembravano cinematografici, ma continuavamo a domandarci: e se lo facessimo lo stesso? E così sono passati sei anni». Il concetto del multiverso si accompagna ad una sensazione definita da Douglas Rushkoff di «Present Shock»: «È il fatto che senti tutto in questo momento — continua Kwan —, senti tutte le narrative possibili. E non solo tu, ma tutti le sentono nel mondo. Ed è qualcosa che ci paralizza, che ci rende immobili: nessuno riesce più a prendere una decisione e per questo fuggiamo nei social media e ovunque altro. Questo film cerca di riportare la nostra attenzione sulle cose che davvero contano e pone la domanda: come facciamo a prestare attenzione a coloro che amiamo , in un mondo che cerca di trarre profitto dalla nostra attenzione? Una delle cose più belle e potenti che puoi fare è dare a qualcuno quell’attenzione. Scegliere quelle persone è importantissimo. Questo film ci permette di esplorare questi temi attraverso il multiverso». Quasi tutto il film è stato realizzato in un unico edificio a Los Angeles. «Abbiamo privilegiato la quantità sulla qualità: dovevamo convincere tutti che alcune scene dovevano essere ottime, ma il resto no: le mani da hot dog dovevano essere perfette, ma il pupazzo Rakakuni bastava che fosse buffo — spiega Scheinert —. Dovevamo dire agli attori, inclusa Michelle Yeoh: fidati, qui urla e basta. Parte del mio lavoro era dire a tutti: non stiamo facendo un film da Oscar!». Il film (e tutto il lavoro dei Daniels) è caratterizzato da una tensione tra assurdità e sincerità, che rispecchia la vita. «Mettiamo le cose in categorie separate , ma è tutta una finzione — dice Kwan -— Ben Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, ha scritto un saggio intitolato “Fart Proudly” (scorreggia con orgoglio ndr), in cui raccoglie consigli medici, benefici sociali ed emotivi delle scorregge. Trovo meraviglioso poter guardare alle cose sciocche e trovarci qualcosa degno di attenzione . È la versione più estrema della sfida dell’empatia”. Nel girare il film, i registi avevano scritto alcuni mantra su una lavagna. Uno di essi era una domanda: «Come sopravviviamo a questo rumore?». «Un’altra era una citazione di Stanley Kubrick da un’intervista con Playboy: “La cosa più terrificante dell’universo non è che è ostile , ma che è indifferente a noi, ma se trovi un modo per affrontare questa indifferenza, come specie abbiamo l’opportunità di creare significato”. E l’ultima parte della citazione, che era diventata il nostro mantra, dice: “Non importa quanto sia vasta l’oscurità, dobbiamo creare una nostra luce”». Kwan spiega che sembra sciocco ma è importante ridurre tutto ad uno slogan, a volte, per ricordarsi «di quel 10% su cui vuoi concentrarti mentre intorno c’è il caos». «E l’altro mantra era: “Suona il clacson quando sei arrapato”», aggiunge Scheinert, provocando le risate nella sala. Un giovane regista newyorkese, Evan Coles , ci ha detto di trovare questo film spaventoso perché dà voce senza freni e senza soluzioni al nichilismo dell’attuale società americana. Kwan è consapevole di quanto sia spaventosa e deprimente la fine, anzi dice che «non se ne parla abbastanza». «Ho pensato che dovesse esserci il caos alla fine, perché ogni volta che abbiamo una esperienza catartica nella vita sentiamo che è magnifico, che abbiamo fatto un viaggio e meritato un premio, ma la verità è che torni nel mondo reale e il mondo reale è pur sempre terribile. Penso che il resto della vita della protagonista sarà incredibilmente difficile, ma proprio per questo le darà molto».
Le memorie del principe Harry ridotte da 540 a 16 pagine . È questo il modo, scelto da due case editrici russe, per aggirare il divieto di pubblicazione dei bestseller imposto dagli editori occidentali dopo l’invasione dell’Ucraina. Si comincia, appunto, da «Spare. Il minore». Non è detto che sia poi male, forse, per chi non abbia voglia di sbobbarsi per intero quel tomone, ma senta comunque l’esigenza di rimanere aggiornato sul panorama editorial-mondano. Ne dà conto Bénoît Vitkine, il corrispondente di Mosca di Le Monde . Ecco l’incipit dell’abregé delle memorie di Harry così come lo propone l’editore Smart Reading:
«Il libro comincia con il racconto dei funerali del nonno , il principe Philip, nella primavera 2021. Il triste evento accade due mesi dopo che Harry e sua moglie Meghan hanno rinunciato al loro statuto di membri attivi della famiglia reale. Dopo i funerali del nonno, Harry ha incontrato in segreto suo fratello e suo padre. Hanno parlato del tempo e di come si sono svolti i funerali. Tipico small talk britannico. Solo dopo un po’ hanno cominciato a discutere della nuova vita di Harry». Uscito il 16 febbraio in versione digitale, il riassunto ha l’indubbio vantaggio di costare in rubli l’equivalente di 1.75 euro, oltre che di soddisfare la curiosità, nonostante tutto molto forte, del pubblico russo sulle beghe familiari della corona britannica. Ovviamente, sia a Smart Reading sia all’altro editore concorrente Eksmo-Ast, che ha intrapreso la stessa operazione, l’embargo vieta l’uso di citazioni dirette e impone di restituire i contenuti tenendosi il più possibile lontani dal testo originale. Pena la rivalsa economica del potente editore Penguin Randhom House, che detiene i diritti planetari del megaseller (in Italia edito da Mondadori). Ciò non toglie che a fine mese, oltre all’ebook e all’audiolibro, il riassunto uscirà anche in formato cartaceo (tiratura prudente, sembra, di 3.000 copie). Al di là del fatto che la trovata russa sarebbe per noi un utile esercizio scolastico da applicare ai classici, pare che a Mosca si voglia estendere l’esperimento ad altri titoli . Dovrebbe seguire la «saga» self-help di Jen Sincero.
Grazie. A domani. Cuntrastamu. Michele Farina