Editor in Chief: Giampaolo Pioli
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English Editor: Grace Russo Bullaro
La scrittrice Costanza Rizzacasa d'Orsogna, (Foto di Giliola Chiste)
“Ingorda”, “abulica”, “culona”, “balenottera”, “cretina”. Quante parole si possono usare per discriminare una persona grassa? Quante ne bastano per creare una ferita alle radici dell’albero e fare in modo che quell’albero non sia più lo stesso? Deviato nella crescita, estirpato al primo temporale?
Parlare con Costanza Rizzacasa d’Orsogna del suo romanzo Non superare le dosi consigliate, edito da Guanda, è come raddrizzare quell’albero e mettere i puntini sulle “i” sulla discussione intorno alla body positivity, che in questi giorni imperversa in Italia dai salotti tv alle copertine dei settimanali.
Uno in particolare: Vanity Fair pubblica un numero dedicato all’accettazione di ogni corpo e in copertina mette Vanessa Incontrada, elegante e nuda, eretta a paladina del «Nessuno mi può giudicare».
Ma il corpo di Vanessa è un corpo conforme, forse due rotolini di pancia appena, dati più che altro dalla posa. I corpi di Matilde, la protagonista del romanzo di Costanza, di lei che l’ha scritto e mio invece no. E la conversazione non può che partire da qui.
“Se finalmente anche in Italia si parla di body positivity, io sono felicissima. Serve l’apporto di tutti”, spiega Costanza, scrittrice e giornalista prestata al mondo dell’attivismo da quando, un anno e mezzo fa, il suo personal essay “Storia della mia grassezza”, pubblicato sul settimanale 7 del Corriere della Sera era diventato virale. Da quel manifesto è nata la rubrica anyBody – Ogni corpo vale, che ogni settimana, sempre su 7, si occupa di grassofobia, fat shaming e accettazione con una padronanza ben poco diffusa.
Che ne pensa della tanto discussa copertina di Vanity Fair con Vanessa Incontrada?
«Per anni, specie dopo la gravidanza, la Incontrada è stata dileggiata per il suo peso, dai social alle riviste di gossip. Si sa, a un’attrice, un’ex modella, non si perdona nulla. Quindi, brava Vanessa a rispondere ai bulli. Ma attenzione: il corpo di Vanessa non è affatto rivoluzionario, come è stato scritto. Il 70% delle donne europee porta una taglia dalla 44 in su. Il corpo di Vanessa è normalissimo (anzi, lei è stupenda). Lo è, non conforme, solo per quelle riviste e case di moda che per anni ci hanno propinato come ideale di bellezza femminile una taglia 34.
Giorni fa un amico mi ricordava quando a Londra, a Trafalgar Square, fu esposta nel 2005 la statua di Alison Lapper, artista senza braccia e senza parte delle gambe, scolpita nuda e incinta. Quello sì era rivoluzionario, non la copertina di Vanity con una bellissima donna taglia 44.
Ecco perché è importante parlare di body positivity nel modo corretto. Purtroppo, mentre negli Stati Uniti vanno in copertina donne dai corpi davvero non conformi come Lizzo e Tess Holliday, da noi ultimamente, forse in buona fede, forse per fare un titolo sui giornali ora che il tema è “di moda”, tante influencer dai corpi pressoché perfetti si propongono come paladine della body positivity ostentando un paio di brufoli o una smagliatura invisibile ad occhio nudo. E certo, non bisogna essere una taglia 60 per parlare di body positivity, ma bisogna fare attenzione al messaggio che diamo: un brufolo sul naso non è un corpo non conforme, un po’ di cellulite non è un corpo non conforme. Non stiamo parlando di due chili in più, ma di quaranta, cinquanta chili in più, di persone a cui manca una gamba o col viso devastato da un’ustione. La body positivity promuove questi corpi (e poi anche corpi anziani o discriminati per il colore della pelle). Se invece passa il messaggio che la massima imperfezione possibile siano le naturalissime pieghe della pelle della Incontrada quando si mette seduta, o il corpo perfetto di Chiara Ferragni, allora l’adolescente cicciottella, ma anche una donna, che non si accettano, che portano due-tre taglie in più, penseranno di essere un mostro, e i corpi non conformi – quelli per cui la body positivity è nata – saranno sempre emarginati.
In questo, la responsabilità dei media è fondamentale. Qualche giorno fa, l’account Instagram di un noto femminile italiano ha pubblicato un post in cui si arrampicava sui proverbiali specchi per dire che Kate Winslet, una delle donne più belle del mondo, sarebbe “una di noi” e “una donna vera” perché “lotta con la bilancia”. Come se fosse il peso a fare una donna vera o falsa, a renderla “una di noi”. Ma noi chi? Per inciso il titolo era “Compie 45 anni e resta un modello positivo”, come se una a 45 anni diventasse un modello negativo. Sembrava quel titolo infelicissimo di una vecchia videorubrica di Corrado Augias: “Quando le donne invecchiano con grazia”. Perché solitamente diventiamo megere».
Body positivity come costola del femminismo, quindi?
«Sì, anche se in realtà il femminismo ha sempre avuto un rapporto complicato con la grassezza, come sottolinea anche l’esperta americana di studi di genere Amy Erdman Farrell nel saggio Fat shame: Lo stigma del corpo grasso, in uscita in Italia per Tlon. Ma il femminismo è inclusivo o non è, e parlo anche, per esempio, delle donne trans, che un femminismo radicale e di vecchia generazione rifiuta di accettare, guardando solo alla biologia e sentendo minacciati i diritti faticosamente conquistati. Io credo che proprio quelle donne che hanno lottato e conquistato i nostri diritti civili più importanti dovrebbero più di altre capire e includere».
Nel suo romanzo, Non superare le dosi consigliate, c’è un passaggio che mi ha colpita molto, che essere grassi non è una colpa. Una considerazione che va contro tutti quelli che puntano il dito contro i grassi, citando ad esempio i rischi per la salute.
«Si può essere obesi per tanti motivi che non dipendono da noi. Motivi endocrinologici, farmacologici, genetici, oppure perché si soffre di binge eating disorder, il disturbo alimentare delle abbuffate incontrollate dove si perde la percezione di quanto si mangi. E poi certo, si può essere obesi perché non ci si prende cura di sé. Ma la retorica della colpa non aiuta, anzi, peggiora le cose. Uno studio della Florida State University rivela che chi subisce fat shaming, cioè la discriminazione contro le persone grasse, è due volte e mezzo più a rischio di ingrassare ulteriormente e notevolmente di chi non lo subisce. In un altro studio, pubblicato l’anno scorso, sull’evoluzione del pregiudizio implicito negli Stati Uniti, Tessa E. S. Charlesworth e Mahzarin R. Banaji, del dipartimento di psicologia di Harvard, hanno analizzato tredici anni di preconcetti degli americani nei confronti di sei indicatori: orientamento sessuale, razza, colore della pelle, età, disabilità e peso. Risultato? Mentre il pregiudizio verso le altre categorie è fortemente diminuito (orientamento sessuale), diminuito (razza, colore della pelle) o leggermente diminuito (età, disabilità), quello contro le persone grasse è aumentato del 40%. Ho appena curato la prefazione del saggio Fat, dello storico americano Christopher Forth, in uscita in Italia per Espress Edizioni col titolo Grassi, che racconta bene come la grassofobia sia al cuore del razzismo, del classismo e della misoginia. La effe di “fat” è la nuova lettera scarlatta, come sottolineava anche un editoriale della School of Public Health di Harvard. Che riportava un’ulteriore ricerca secondo cui il fat shaming sarebbe addirittura tossico come l’inquinamento, perché spinge chi ne è vittima a scegliere un percorso diverso, o a non uscire di casa. Questi dati devono farci riflettere.
Molto ha contribuito la cosiddetta “epidemia di obesità”, oggetto, in tempi recenti, di migliaia di studi, articoli e servizi spesso allarmistici, e unita all’idea che mentre se sei nero o disabile non puoi farci niente, il peso è invece una diretta conseguenza dei nostri comportamenti e del nostro stile di vita. Se sei grasso, dicono, è colpa tua. Perché non riesci a controllarti, perché sei pigro. Ai grassi vengono associati i vizi peggiori: la mancanza di forza di volontà, di controllo su se stessi e sui propri istinti, di moderazione. Nel determinismo capitalista americano essere grassi è una colpa pari all’essere poveri. E poiché mantenersi in forma e mangiare bene ha un costo, ecco che i poveri sono più frequentemente grassi, quindi due volte emarginati. La salute è un privilegio. Lo è sempre di più Italia, lo è in misura ancora maggiore negli Stati Uniti, dove le terapie di contrasto al binge eating disorder inizialmente non erano coperte dall’assicurazione, nonostante sia il disturbo alimentare di cui soffrono più persone al mondo, quasi tre volte di più di anoressia e bulimia insieme. E attorno al binge eating c’è ancora moltissima disinformazione: in Italia per esempio molti medici ancora confondono l’obesità, che è solo una conseguenza del disturbo, con il disturbo vero e proprio, e pretendono di curare il fisico, mentre dovrebbero curare la testa, perché il disturbo alimentare è un disturbo mentale. Il famoso bendaggio gastrico, da tanti considerato una panacea, a una persona che soffre di abbuffate incontrollate può procurare danni irreparabili».
In prima media invece di tenermi il resto della spesa per comprare i trucchi e i quaderni firmati, come facevano già le mie compagne, io ci compravo le briochine.
«Che hai fatto coi soldi?» mi chiedevano.
E io: «Ho comprato una briochina».
Se a Matilde, protagonista del suo libro e io narrante, non fossero state vietate le briochine da bambina, sarebbe diventata comunque una donna grassa?
«Non possiamo saperlo. Probabilmente però non ne sarebbe diventata ossessionata. Non occorre essere Freud per sapere che se neghi qualcosa a un bambino vorrà proprio quella cosa. Se la madre di Matilde non fosse stata ossessionata dal proprio aspetto e da quello della figlia, Matilde avrebbe sicuramente avuto un rapporto migliore con il proprio corpo. Soprattutto, se la madre non le avesse propinato lassativi fin da piccola, Matilde non ne sarebbe diventata dipendente, cosa che ha condizionato tutta la sua vita. Il primo esempio, positivo o negativo, è in famiglia. Il primo fat shaming è in famiglia. La famiglia ha l’immenso potere di formare la percezione di sé del bambino, l’accettazione o meno di sé, la fiducia in sé, il rispetto di sé e degli altri.
Il mio, però, non è tanto un libro sulla grassezza, quanto sulla famiglia, le dipendenze, la menzogna e il perfezionismo. La dipendenza dai farmaci, dall’amore e dal cibo, che poi nei disturbi alimentari (la madre di Matilde è anoressica e bulimica, Matilde è bulimica e dopo i quarant’anni inizierà a soffrire di binge eating) è sempre un mezzo: la vera fame è d’amore, quell’amore familiare che Matilde, cresciuta, andrà cercando negli uomini più sbagliati, non sapendo che non puoi chiedere a un uomo lo stesso amore di un genitore. Il disturbo alimentare è un grido di dolore, una richiesta d’amore e d’attenzione. Anche il lassativo, che diventa il centro della vita di Matilde, è un mezzo. Per lei, bulimica figlia di una madre bulimica che ama moltissimo, che vuole rendere orgogliosa, smettere di prendere i lassativi non è concepibile, perché equivarrebbe a tradire la madre (che ha già tradito una volta quando ha iniziato ad ingrassare). La madre di Matilde è una donna disturbata e profondamente insoddisfatta, che riversa sulla figlia le proprie ansie di perfezione e di successo. Non riesce a dirle che è bella, che le vuol bene, la chiama “cretina”. Così Matilde cresce profondamente insicura, e questo determinerà tante sue scelte sbagliate.
E poi c’è la menzogna, un tratto comune a molti disturbi alimentari. C’è la menzogna dell’anoressico, che mente su quello che non ha mangiato, c’è quella del binge eater, che mangia tre croissant a colazione in tre caffetterie diverse ma dice che ha mangiato uno yogurt. Il binge eater non ha in realtà l’intento di mentire, ma perde la cognizione di ciò che sta mangiando – tre, quattromila calorie in pochi minuti (poi è chiaro che una certa consapevolezza c’è sempre, altrimenti Matilde i croissant li mangerebbe tutti nella stessa caffetteria). E c’è la menzogna di sopravvivenza, di chi inventa malattie per non uscire di casa e non sottoporsi così al giudizio degli altri, inventa furti di documenti per non prendere un aereo sapendo o temendo che non entrerà nel sedile.
Tutto è intrecciato in questo romanzo che vuole essere autentico. E non lo è soltanto perché ho prestato a Matilde il mio vissuto di disturbi alimentari e poi di obesità. Parliamo di lassativi? Facciamo vedere di che cosa stiamo parlando, che cosa comporta davvero una dipendenza. Facciamo vedere il dolore di chi è troppo grasso per infilarsi una scarpa, un paio di calze, per fare una passeggiata».
Sia lei che Matilde avete vissuto per un periodo a New York. C’è diversità nell’accettazione dei corpi tra l’America e l’Italia?
«Mi sono trasferita negli Stati Uniti dopo il liceo, all’inizio degli anni Novanta, e tranne un breve periodo a Milano in attesa di un visto di lavoro, vi ho vissuto fino al 2004. Dodici anni, i più belli della mia vita. Dove una secchiona timidissima e insicura come me è finalmente sbocciata. Uno dei temi del mio romanzo è il confronto tra la scuola italiana e quella americana. La scuola italiana ti dà una preparazione decisamente superiore a quella americana, ma allo stesso tempo, forse per prepararti alle durezze della vita, ti mortifica, come farà poi il mondo del lavoro. Negli Stati Uniti invece ti insegnano – o almeno era così quando vi studiavo io (Rizzacasa è laureata in scrittura alla Columbia University, ndr) – che se ti impegni puoi diventare davvero tutto quello che vuoi. Poi certo, anche nel sistema americano ci sono storture: Matilde deve fare i conti con il culto del vincente, dove se ti ammali, se non sei più in grado di produrre, non vali più nulla. Anche vincere a ogni costo genera mostri. Spesso, poi, quel diventare tutto quello che vuoi vale solo se sei della razza giusta, e l’università americana ha costi sempre più proibitivi.
Essere obeso in America, trent’anni fa, non era una maledizione, ma una caratteristica, come essere basso o avere gli occhi neri. Il fat shaming non era violento e pervasivo come oggi, e nelle serie tv, accanto alle battute facilone di certe sitcom, figuravano spesso persone rotonde o addirittura grasse senza che la loro vita ruotasse attorno al loro peso. Come i Conner, protagonisti di Roseanne, andata in onda fino al 1997. Col tempo tutto è peggiorato, vedi anche la Monica Grassa di Friends, una delle serie più grassofobiche della storia della televisione americana. Oggi gridiamo alla rivoluzione se in una serie c’è una ragazza o una donna grassa, e la sua vita è quasi sempre incentrata sul suo peso, come nella prima stagione di This Is Us, che pure ha avuto il pregio di portare una grande obesa in una serie che non fosse l’orrido reality Vite al limite.
Di New York City, che non è l’America, mi manca soprattutto la diversità. Di culture, di razze, di generi. Come qualunque diciottenne che sbarchi a New York, Matilde ha fidanzati di tutti i colori e tutte le provenienze, asiatici, neri, Middle Eastern (anche se Matilde, che non si fa mai sconti, a un certo punto si chiede se non andasse coi ragazzi neri perché, preferendo molti di loro ragazze più in carne, sarebbero stati più tolleranti col suo corpo). Poi però torni in Italia, scrivi un romanzo che parla anche di questo e la cosa diventa, magari in diretta tv, lo spunto per ammiccamenti stupidi e volgari. Siamo così indietro.
Questo non vuol dire che a New York, allora, non vi fosse discriminazione, tutt’altro. La New York dei primi anni Novanta è quella, per esempio, dei Central Park Five. Contemporaneamente andava di moda dirsi “colorblind”, nel senso di non vedere alcuna differenza fra le razze. Un concetto oggi superato, tanto che si parla di “colorblind racism”, perché negare la realtà della razza, e quindi del razzismo, può solo perpetuare le diseguaglianze. Dirsi colorblind è in realtà white privilege. Ricordo la discriminazione negli ospedali newyorkesi, il corto circuito tra colore della pelle e capacità di spesa, o percezione di essa, e quanto fossi cosciente già allora di un orrore di cui si parla pochissimo, e cioè le amputazioni che i neri subiscono in percentuali molto superiori ai bianchi, perché il corpo nero vale meno».
Cosa risponde a chi dice che la body positivity è un derivato del politically correct e lamenta “il trionfo dell’ipocrisia”?
«Che il politically correct non è ipocrisia ma rispetto ed educazione. Chi lo critica vuole solo poter continuare a vomitare i propri insulti – misogini, razzisti, classisti – senza conseguenze».
Lara Lago, nata a Bassano del Grappa, giornalista collaboratrice de La Voce di New York fin dal 2013, dopo aver vissuto in Albania e ad Amsterdam, ora si divide tra Milano, dove lavora per Sky, e il Veneto, scrivendo di diritti e Bodypositivity.
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