Anni fa lo scrittore britannico Ian McEwan scrisse che osservare il comportamento di una famiglia di bonobo, primati che vivono nell’Africa centrale, era come «ripassare tutti i grandi temi del romanzo inglese dell’Ottocento: alleanze strette e poi troncate, individui che vincono e altri che cadono, trame ordite, vendette, gratitudine, orgoglio ferito, corteggiamenti riusciti e falliti, lutto e cordoglio». L’immaginazione e le storie, scriveva McEwan, ci permettono di conoscere e capire il mondo, anche quando è lontanissimo dalla nostra esperienza.
Immagini e storie sono spesso anche lo strumento attraverso il quale gli studiosi che si occupano di argomenti complessi, molto specifici e lontani dalla vita quotidiana delle persone, cercano di farsi capire quando spiegano le proprie ricerche al pubblico. Ma esistono alcuni argomenti per i quali la vera difficoltà, ancora prima che comunicare male o bene, è proprio farsi capire: riuscire a far comprendere al grande pubblico l’essenza e i fini stessi del lavoro di ricerca, e coinvolgerlo nelle sue scoperte e progressi.
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Negli ultimi due anni, con la pandemia, la comunicazione del sapere scientifico è diventata un argomento ancora più centrale nel dibattito, perché la buona e la cattiva informazione sulla scienza hanno avuto conseguenze tangibili sulla vita delle persone e delle società. I limiti e le criticità di molti approcci giornalistici alla scienza, anche quelli apparentemente più responsabili e rigorosi, sono stati descritti e analizzati da molti esperti.
Ma di recente in Italia c’è stato un momento in cui è diventato particolarmente chiaro che esiste tutto un altro livello di saperi complessi di difficilissima divulgazione: quando il fisico Giorgio Parisi ha vinto il premio Nobel, per giorni lui e altri studiosi si sono ingegnati per provare a far capire agli italiani perché un loro concittadino fosse stato insignito del più importante riconoscimento al mondo nella sua materia. Per rendere comprensibile e avvincente l’oggetto degli studi di Parisi si è fatto ricorso a inventive metafore, immagini quotidiane e schemi narrativi familiari, con risultati più o meno soddisfacenti.
Sono forme di trasmissione del sapere di fatto antichissime, ma utili ancora oggi non solo a tradurre linguaggi specialistici e poco familiari a un pubblico di non esperti, ma anche a far capire il significato e l’importanza delle ricerche a cui si riferiscono.
Giulia Ammannati, docente di paleografia latina alla Scuola Normale Superiore di Pisa, si occupa di testimonianze papiracee, manoscritte e documentarie di diversi periodi storici. È nota per varie scoperte: ha decifrato un’epigrafe a Pompei che ha consentito di posticipare di due mesi la data dell’eruzione che la sommerse, nel 79 d.C.; ha svelato la firma dell’autore della Torre di Pisa, lo scultore Bonanno Pisano, ritenuta fino a quel momento un’iscrizione tombale, riabilitando così una tesi del pittore Giorgio Vasari; ha recuperato la calligrafia di Giotto in alcune scritte all’interno della Cappella degli Scrovegni, a Padova.
Per raccontare le sue scoperte, Ammannati racconta di usare molto spesso l’immagine del cruciverba o del sudoku: «trascorro settimane su un segno che, per come appare, può indirizzarmi verso quattro o cinque soluzioni diverse», racconta. Un segno tondeggiante, per capirci, può essere il tratto di una “o”, di una “g” o di una “c”, che possono a loro volta essere l’inizio, il centro o la fine di tantissime parole. «Il mio lavoro consiste nel combinare la conoscenza che ho della lingua e delle forme grafiche di quel periodo con le mie ipotesi e supposizioni davanti a quel segno: è un lavoro fatto di controlli incrociati, incastri, esattamente come in un cruciverba, complicato però dall’essere senza caselle», dice Ammannati, che studia le sue iscrizioni attraverso sopralluoghi e lunghe ore di studio su immagini e scansioni fatte con tecnologie avanzate.
Per raccontare la sua scoperta a Pompei, Ammannati usa anche l’immagine del muratore in una casa in costruzione: la scritta in carboncino da lei decifrata, quella che consentì di posticipare la data dell’eruzione del Vesuvio dal 24 agosto al 24 ottobre del 79 d.C., era infatti secondo la sua ipotesi una specie di annotazione di servizio fatta da un operaio sul muro durante alcuni lavori di ristrutturazione. «Quando racconto questa ricerca faccio sempre un paragone coi segni sul muro ancora non intonacato che ci sono nei cantieri»: possono essere scritte, numeri o semplici segni fatti durante il lavoro di costruzione per annotarne i passaggi. «Sono segni che vengono poi ricoperti con l’intonaco, e che in quel determinato caso sono serviti a capire che, a ottobre, quella casa era ancora in piedi e non poteva essere stata distrutta ad agosto».
L’altra immagine usata spesso da Ammannati è quella del mazzo di chiavi per aprire la porta, soprattutto per descrivere il proprio metodo di lavoro e far capire che la ricerca è fatta anche di un costante formulare ipotesi che spesso non funzionano, ed è quindi necessario proporne un’altra, fino a quando non si trova quella adatta a spiegare l’oggetto che si ha davanti: «è come avere un mazzo di chiavi davanti a una porta chiusa: non c’è una chiave che apre tutte le porte e non tutte le chiavi funzionano per aprire quella porta».
L’iscrizione a carboncino, trovata a Pompei, a supporto della teoria che la data dell’eruzione fosse ad ottobre e non ad agosto del 79 d.C. (ANSA/ CIRO FUSCO)
Anche Fabio Biscarini, professore di chimica all’Università di Modena e Reggio Emilia e dirigente di ricerca dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Ferrara, usa immagini quotidiane e familiari a tutti per raccontare le sue ricerche nell’ambito delle nanotecnologie e delle loro applicazioni a biomedicina e neuroscienze.
Nel 2008, quando era ancora ricercatore al CNR, fu tra i vincitori del premio Cartesio, che è stato definito anche “il Nobel europeo”, per aver realizzato una specie di abaco molecolare, grande quindi pochi milionesimi di millimetro, che si forma a comando su una superficie liscia composta da pochi strati di macchine molecolari chiamate anche “rotassani”. Quello delle macchine molecolari è un campo affascinante e con tantissime potenziali applicazioni anche in ambiti molto diversi tra loro, dall’energia alla medicina: è a tre pionieri delle macchine molecolari, Jean-Pierre Sauvage, Bernard Feringa e Fraser Stoddart, che nel 2016 è stato conferito il premio Nobel per la Chimica.
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Per spiegare cosa è un rotassano e cosa è stata la scoperta che ha portato al Premio Cartesio, Biscarini ricorre all’immagine di un ingranaggio meccanico che ruota attorno a un perno con piccoli movimenti discreti. Questi movimenti possono essere indotti attraverso uno stimolo esterno – «una leggera carezza lungo la superficie fatta con la punta di un microscopio a forza atomica», dice Biscarini – che porta le molecole a coordinarsi e a formare sulla superficie alcune nano-palline, tutte di dimensioni uguali e equidistanti, «portando la superficie, prima liscia, a diventare una specie di pelle d’oca». Una pelle d’oca, però, che può essere sfruttata per scrivere informazioni.
La scoperta è stata particolarmente importante perché è stato uno dei primi esempi di fabbricazione di nanostrutture auto-organizzate collocate nello spazio con posizioni precise adatte a svolgere funzioni fisiche (in questo caso, la scrittura di informazioni). Per spiegare questo concetto Biscarini usa anche l’esempio della casa e dei mattoni: «è come avere dei mattoni che, con una piccola spinta, sanno già dove andare e come combinarsi tra loro per costruire una casa».
La capacità di controllare a comando i movimenti di rotassani e in generale delle macchine molecolari permette di immaginare possibili ulteriori scoperte in ambito medico e farmacologico, dice Biscarini. Si potrebbe per esempio immaginare che le macchine molecolari possano trasportare una molecola di un farmaco in un organismo e rilasciarla a comando in un distretto ben preciso, consentendo trattamenti che altrimenti non sarebbero possibili. Per spiegare questa applicazione, Biscarini usa spesso l’immagine della nave cargo: «la macchina molecolare che trasporta un prezioso carico nel suo porto d’arrivo, e poi lo scarica una volta arrivato a destinazione».
In anni più recenti, Biscarini si è interessato allo sviluppo di sensori basati su transistor organici (costituiti da molecole organiche e polimeri) che possono essere usati per operazioni diagnostiche e in ambito neurologico. Questi sensori possono monitorare direttamente sul paziente segnali elettrici o chimici a bassissima intensità o concentrazione: con il suo gruppo all’IIT Biscarini si è interessato ai segnali che possono arrivare dal cervello.
Le caratteristiche principali di questi sensori rispetto ad altri sono l’ultra-sensibilità – data dall’amplificazione diretta del segnale biologico in un segnale elettronico – e la flessibilità meccanica, che permettono di adattarsi completamente all’organo a cui aderiscono. Per spiegarlo, Biscarini usa un’immagine familiare: «è come un pezzo di domopak o un cerotto che aderisce a un corpo umido, e che però è in grado di captare i segnali che ci sta comunicando l’oggetto che ricopre, e può a sua volta inviare all’organo segnali o rilasciare un farmaco per correggere qualche malfunzionamento».
Uno studente al Nanotechnology Research and Education Center alla University of South Florida (Joe Raedle/Getty Images)
L’idea al centro di molte riflessioni sulla comunicazione scientifica è sfruttare alcuni meccanismi conoscitivi e forme di trasmissione del sapere, come ad esempio metafore e schemi narrativi, molto antichi e da sempre impiegati dagli umani per conoscere il mondo e per dargli un significato, e che possono quindi essere usati per rendere comprensibili argomenti molto specialistici, e anche per trasmetterne il significato e l’importanza.
Quando a usare queste modalità comunicative sono gli stessi autori delle ricerche il risultato può essere molto efficace, senza essere riduttivo o semplificatorio. Facendo un paragone tra la spiegazione di saperi scientifici molto complessi e la traduzione dell’Odissea, Scientific American ha scritto che la traduzione «non è una versione minore e semplificata di quel poema, ma piuttosto la sua espressione più vera in un linguaggio diverso ma equivalente».
È quello che fanno molti studiosi, di fatto, quando comunicano il proprio lavoro ricorrendo a modelli narrativi in grado di coinvolgere il lettore, raccontando in sostanza le proprie ricerche come una storia, spesso con un inizio, molti ostacoli e una fine che è sempre provvisoria. Per troppo tempo, dice la senatrice a vita Elena Cattaneo, la scienza ha «rinunciato a una propria “narrazione”, a raccontare ai cittadini la meraviglia quotidiana del lavoro della ricerca e della scoperta. Questo ha comportato che spesso gli scienziati si siano trovati davanti a una telecamera privi degli strumenti comunicativi adatti a rendere il loro messaggio chiaro e diretto».
Come scienziata, Cattaneo si occupa di cellule staminali neurali, che come altre cellule staminali adulte sono in grado di rigenerare il tessuto in cui risiedono. Con lo stesso meccanismo, cambiamo pelle ogni poche settimane, o parti del cuore in molti anni, spiega Cattaneo, e c’è un’intera branca della medicina che basandosi sulla proprietà rigenerativa delle staminali lavora per ripristinare tessuti danneggiati. Per spiegare le cellule staminali ai propri studenti, e non è l’unica a farlo, Cattaneo usa il racconto mitologico di Prometeo, punito da Zeus per aver rubato agli dei il fuoco e averlo donato agli uomini: legato a una rupe, un rapace gli divorava il fegato che perennemente, ogni notte, gli ricresceva.
Una coltura cellulare vista al microscopio in un istituto di ricerca della University of Connecticut (Spencer Platt/Getty Images)
Per facilitare il dialogo tra studiosi e pubblico le università hanno cercato a loro volta di elaborare alcuni strumenti. Nel Regno Unito, per esempio, diversi atenei prevedono già nei corsi di dottorato alcune sessioni facoltative di “media training”. Sono incontri tra accademici e giornalisti per imparare a spiegare in modo chiaro e comprensibile a tutti le proprie ricerche, sia scientifiche che umanistiche.
Tra le altre cose si lavora su come strutturare al meglio le proprie risposte alla stampa, dividendole per esempio in tre punti, chiari e concisi, in cui esprimere, spiegare con esempi concreti e ribadire un dato aspetto della propria ricerca. Può essere qualsiasi cosa, dalla rappresentazione delle mani nella pittura rinascimentale alla terapia genica per le malattie rare. Alla fine di queste sessioni si registrano le interviste, si riguardano e si commentano insieme discutendo di come si può migliorare la propria comunicazione pubblica.
Ammannati racconta che quando spiega le sue ricerche prova a far calare il proprio pubblico nella ricerca di indizi, costruendo un «percorso narrativo investigativo e avvincente, che restituisca il piacere della scoperta, al di là del valore storico e scientifico della scoperta».
Fa un esempio con la scoperta che alcune scritte e cartigli (raffigurazioni di rotoli di carta contenenti scritte) nella cappella degli Scrovegni furono realizzate dallo stesso Giotto. Osservandole, Ammannati si accorse che ce n’erano alcune che spiccavano per lo stile del tratto, oltre che per la qualità prospettica (nel caso dei cartigli). La cosa la incuriosì, e dopo alcuni approfondimenti notò che a quella mano erano affidati i compiti più importanti, prestigiosi o difficili dal punto di vista tecnico. Ammannati allargò allora la sua ricerca dalla Cappella degli Scrovegni a tutta quanta l’opera di Giotto, e ritrovò lo stesso tratto, molto riconoscibile per tipo di compiti e qualità dell’esecuzione, lungo tutta la sua carriera artistica. Doveva trattarsi, perciò, della mano dello stesso Giotto.
Il battesimo di Gesù, di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova (ANSA)
Anche Biscarini cerca di incuriosire il proprio pubblico raccontando la propria ricerca come una storia.
Nel suo caso, il punto d’inizio sono i numeri e i dati di partenza: «all’interno delle stesse università si tende a presentare i numeri e i dati di partenza come una cosa noiosa, arida, astratta, con uno strano e incomprensibile pudore, come a voler dire agli studenti “state tranquilli, la scienza non è solo matematica”», dice Biscarini. «Ma i numeri sono il punto di partenza della narrazione, il dato che suscita le nostre domande: sono i primi personaggi della storia, in qualche modo, i suoi ingredienti primari». Secondo Biscarini, è anche compito dello scienziato trasformarli in una narrazione comprensibile a tutti, senza però dimenticarsi di quanto siano importanti per dare una corretta descrizione di quello che osserviamo o scopriamo.
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