Alcuni poeti – forse i più grandi, chissà – non diventano un caso, non si lasciano allineare in una moda, in modi epigrafici. Sono estranei alla citazione: non trascrivi le loro poesie sul diario, cartaceo o digitale esso sia. Non circolano neppure tra iniziati perché non sembra abbiano avuto ancora inizio. Seguono un principio di roccia, forse. Nelly Sachs, ecco, è poetessa che rimane appartata, estranea: si muove, per così dire, con i piedi e le mani aduse alle bende. Non ha la fama di Sylvia Plath o di Wisława Szymborska, non è citata quanto Alejandra Pizarnik o Marina Cvetaeva, non raccoglie grandi passioni come Alfonsina Storni. Certo, il genio non ha misura, non si rettifica tra le grate di una statistica, eppure l’opera di Nelly Sachs non è inferiore a quella di quelle altre grandi donne. Ma bisogna andare a tentoni, per tentativi, per leggere le poesie di Nelly Sachs, di cui esiste una – pur meravigliosa – pubblicazione edita da Einaudi, nel 2006, a cura di Ida Porena, esito di un lungo lavoro (costellato da lavori centellinati: Al di là della polvere, Einaudi, 1966; Poesie, Einaudi, 1971). Non se ne parla, non te la urlano addosso, non la trovi in libreria, ragazza in perenne esodo. Nelly Sachs è poetessa alla macchia, si direbbe, ostinata in un pudore che ha stimmate di luce: è un pudore fiabesco.
“Mi sembra che si sia realizzata una fiaba”, ha detto Nelly Sachs il giorno del conferimento del Nobel per la letteratura. Era il 1966, insieme a lei, a Stoccolma, premiavano il grande scrittore israeliano Shmuel Yosef Agnon. Per la prima – e unica – volta, il Nobel per la letteratura è condiviso. Sembra un paradosso perché la scrittura è garante di una individualità che non si spezza. In qualche modo, è come se da sé Nelly Sachs non si basti, non sia sufficiente (quanto ad Agnon, è figura, anche simbolica, d’altro rilievo: i suoi libri sono tradotti, in Italia, tanti, da Adelphi, Bompiani, Einaudi).
Tra l’altro, il premio nasce da un frainteso (o meglio, una forzatura poco a fuoco): il legame con la religione ebraica – ricostruita, tardiva, ‘letteraria’, stanata tra le leggende chassidiche raccolte da Martin Buber: la Sachs nasce in una famiglia di ebrei tedeschi benestanti, non praticanti –, il terrore nazista, che la costringe ad abbandonare Berlino per la Svezia. Le motivazioni del Nobel sono fuorvianti: Nelly Sachs è premiata “per l’eccezionale scrittura lirica e drammatica, che interpreta con forza commovente il destino di Israele”. Come dire che Paul Celan – amico della Sachs – è poeta in virtù di Auschwitz; lo è, invece, per torturare con candele il male. In realtà, la Sachs ha sempre detto che “scrivere era il mio grido muto, ho scritto per liberarmi di me stessa”. Non sono rare le poesie d’amore – spinato – nell’opera della Sachs (“Il mio amore s’è versato nel tuo martirio/ ha forzato la morte/ Viviamo nella resurrezione –”); la sacralità che le ammanta, come una stola che denuda più che rivestire, terribile vello che scortica, è aspra lotta contro l’angelo.
Nelle rare fotografie, Nelly Sachs sembra una pia vecchina: nessuno ne intuisce, di primo acchito, i mostri, i reiterati ricoveri psichiatrici, l’indigenza, il tentativo di strappare la notte come fosse una cinta.
“Così splendono due mani nella notte Le tue mani illuni solo perché l’agonia dell’amplesso da morte e amore conduce nella veracità
Rete di vene azzurre turgide come i sudari del sistema solare prima dell’esplosione per scoprire nuovi mondi questi segni dove sta redenzione”
Nelly Sachs mette in soggezione. La sua vita non si presta al racconto, non ha prestanza fotografica: è una vita devota ai rari affetti – la madre –, alla sconfitta di sé tramite il cenobio della poesia. E la poesia, frutto di questa dedizione, sfugge alla grammatica dei sentimenti primi, non è esagitata, non è confessionale, non è ironica; non esibisce la mania, non sbraita il crisma cristico della carne, a gambe larghe; la temperatura mistica è temprata dalla musica dello Zohar, libro magico e cifrato, summa della Cabbala ebraica, e dalle visioni di Jakob Böhme.
Cosa accade a un poeta quando si fa mitografo, esegeta di segni, incunabolo di sortilegi? Mago, falso profeta, illusionista che preda il prestigio altrui: tale poeta è destinato all’incomprensione, a una specie di latitanza dal senso. Non dire mai al poeta, che cosa volevi dire?: lui cosa può saperne, semmai trafigge. In Sansone cade attraverso i millenni, magnetico testo teatrale del 1962 – nel senso di un teatro ‘privato’, letto, privo di scena, osceno – la Sachs scrive:
“Il mondo è pieno di segni. Diagrammi nella sabbia, tetragrammi – quattro lettere divampano mistero. Linee curve – linee in croce. in mezzo uomini fuggono, cacciano uomini, vengono cacciati”.
La caccia è l’ossessione della Sachs: la caccia cosmica, la predazione terrena, continua. Incantamento, testo brevissimo, atto unico micidiale, la scena è “una grotta del periodo glaciale, le cui pareti sono dipinte con scene di caccia, cacciatori e bestie morenti”. Nella caverna, che “sembra un gigantesco dente di ghiaccio”, un mago parla alla ragazza: “la nostra anima è nata al dolore”, rivelano le bestie morenti. “Affondare è una lunga storia – Molte stelle nascono mentre il pesce è appeso all’amo – E poi?”, sussurra il mago.
Una recente traduzione di Fuga e metamorfosi, pubblicata nel mondo inglese a cura di Joshua Weiner (Flight and Metamorphosis, Farrar, Straus and Giroux, 2022) non risolve il dilemma: la Sachs (ben più affascinante della molto tradotta Louise Glück) è poetessa che si scruta da fuori, dal giardino di casa, si ha paura, forse, che toccarla incenerisca, la incenerisca. Le recensioni paiono spilli a gironzolo su una farfalla. Così, ritornano le antiche didascalie – “è nota per essere l’icona culturale dell’esilio degli ebrei dalla Germania nazista” – che sanno di anatema prima che di omaggio. In Nelly Sachs – che nel 1965, di fronte a una platea di giovani tedeschi disse, “Nonostante il passato, io credo in voi… camminiamo insieme per trovare un nuovo inizio, lontano, magari, ma tuttora prossimo; tentiamo il bel sogno che i nostri cuori anelano a realizzare” – l’elemento ebraico è trapiantato, fuso nella ricerca lirica. Nelly Sachs è stata pienamente poeta: e come puoi accoglierlo, il poeta – non chi si esibisce come tale –, come metterlo in un calice, come berne, alla luce?
Quanto alla follia, ne dice Rabbi Yose, in un passo dello Zohar:
“Un po’ di stoltezza mostra e rivela il pregio della sapienza e della gloria suprema più di tutte le altre vie del mondo. Il vantaggio della luce non viene se non dalla tenebra. Qual è l’ornamento del bianco? Il nero. Se non vi fosse il nero, il bianco non sarebbe riconoscibile, e per via del nero il bianco si innalza e diventa prezioso”.
Così, la poesia è l’ornamento di una vita intera, ciò che resta dopo il lento lavoro di setaccio, la scoria d’oro, perla d’olio con sanare l’affranto.
Chi muore l’ultimo porterà il grano del sole tra le labbra spezzerà la notte nello spasmo della dissoluzione.
Sangue – sogni scatenati spara dalle sue spalle seminagione di lampi marchia la pelle empirea con il mistero dell’afflizione.
Perché l’arca di Noè è precipitata lungo sentieri stellati chiunque muore qui per ultimo avrà le scarpe piene d’acqua
dove un pesce ricattato dalla nostalgia incide un tempo cupo, che si dissolve nella sua tomba.
Questo è l’oscuro respiro di Sodoma e il fardello di Ninive gettato nella spalancata ferita della nostra porta.
Questa la sacra scrittura in volo sulla terra le lettere si arrampicano verso il cielo beatitudine piumata trova rifugio nel favo.
Questo Laocoonte nero gettato sulle nostre palpebre perfora i millenni sradicato albero del dolore germoglia nelle nostre pupille allieve.
Dita marmorizzate dal sale preghiera in lacrime.
Il Suo rimorchio d’oceano dragato altrove nella conca grave di segreti.
Nostro flusso stella dell’agonia della nostra sabbia ammuffita.
Il Cacciatore mia costellazione mira nel segreto sanguigno: sommossa… passi in fuga senza asilo –
Ma il vento non è casa lecca le ferite del corpo come un animale –
Come ricavare il tempo dai dorati fili del sole? Sbobina la notte da un bozzolo di farfalla?
Oscurità dilaga la legazione per un battito di ciglia:
In fuga bella accoglienza lungo la strada –
Stretta nella benda dei venti piedi in preghiera di sabbia che non può mai dire Amen perché deve muoversi dalla pinna all’ala e oltre –
La farfalla malata presto conoscerà il mare – Questa pietra con lo stemma della mosca cade nella mia mano –
Invece della casa stringo la metamorfosi del mondo –
Quante patrie giocano a carte nell’aria mentre l’esiliato attraversa il mistero
Musica addormentata nel folto del bosco dove il vento, è solo interpretazione di ostetrica
Scisma di luci alfabeto-euforbia scrofe nel parto che divora la prima parola di Dio.
Il destino si contrae nei meridiani sanguinanti della mano –
Tutto è infinito appeso ai raggi di una distanza.
nel vento di dolori nel gelido giogo dell’allungare gli arti respira per eoni e come forme di vetro soffiato piaga la forma svanita dell’amore
per bocca di un dio –